
ECOMUSEO CIMBRO
dei sette comuni

Rete etnografica di mobilità dolce

Le escursioni
Antonia Capriz, “ANITA”
sentiero Anita
Con il Sentiero Anita la comunità di Rotzo
desidera ricordare il sacrificio di tutti i partigiani e resistenti
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Medaglia della Liberazione
alla partigiana Antonia Capriz
nome di battaglia “ANITA”
18.11.2016
Pietro Capriz, il padre di Antonia, era arrivato a Rotzo da Gemona per lavorare alla ricostruzione del paese; lì incontrò Maria Maddalena Costa, che lavorava come cuoca nei cantieri e la sposò il 1° ottobre del 1921. Condividevano gli ideali del socialismo allora dilagante, ideali che trovavano un terreno fertile negli anni pieni di tensioni sociali, seguiti alla fine del conflitto, con un malcontento diffuso tra i reduci del fronte e dei lager, tra gli invalidi di guerra e i mutilati nel recupero bellico, le vedove e gli orfani. Il 23 febbraio 1923 nasceva Antonia che non farà in tempo a conoscere il padre perché, chiusi i cantieri, Pietro è dovuto partire come tanti verso l’Argentina in cerca di lavoro e, come per altri di loro, non se ne sono avute più notizie. Ho incontrato “Anita”, da tempo costretta a letto e amorevolmente assistita dai nipoti e dalla nuora; le gambe non la reggevano più, quelle gambe che dal ‘43 al ‘45 percorrevano giorno e notte il sentiero che partiva proprio dietro la sua casa, scendeva nell’impervia Val d’Assa, nei sottostanti rifugi delle Cenge e oltre verso la mulattiera sul versante opposto del Dosso, la contrada di “Spiridione”, di Sculazzon e Conca Bassa, dove c’erano i covi partigiani della “Garemi”. Già allora le gambe le si gonfiavano e alla sera, di ritorno dalle missioni, era costretta ad immergere i piedi nella mastella con acqua e sale, la stessa mastella che si vede nella foto delle lavandaie, “pane quotidiano” delle donne di un tempo. Alla sua porta bussavano a tutte le ore “Marte”, “Tempesta”, “Nembo”, “Blasco”, carichi di zaini da portare alle Fratte e giù per la Sengèla di San Pietro, dove c’erano i covi più sicuri. Sempre pronta a partire, per lei i “tusi” erano come fratelli, avrebbe dato tutto alla Resistenza. Donne sole, eroiche, vessate dal fascismo, che le aveva private di tutto svuotando le loro cantine e lasciandole senza mucche e senza la tessera annonaria, costrette ad elemosinare un pentolino di latte dal vicinato. “Anita” in seguito ad una spiata era stata trascinata nelle carceri fasciste di Thiene, dove le sono stati applicati i cavi elettrici su tutto il corpo, anche sui seni. Così si concluse l’intervista: «Dopo la Liberazione non mi sono sentita appagata, i partigiani finirono tutti in Australia, 24 della mia classe. Mi hanno dato qualche riconoscimento, ma vorrei buttare via tutto, disgustata per come si è ridotta l’Italia».
Testo a cura di Giorgio Spiller
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Il 23 febbraio 1923 nasceva Antonia che non farà in tempo a conoscere il padre perché, chiusi i cantieri, Pietro è dovuto partire come tanti verso l’Argentina in cerca di lavoro e, come per altri di loro, non se ne sono avute più notizie. Ho incontrato “Anita”, da tempo costretta a letto e amorevolmente assistita dai nipoti e dalla nuora; le gambe non la reggevano più, quelle gambe che dal ‘43 al ‘45 percorrevano giorno e notte il sentiero che partiva proprio dietro la sua casa, scendeva nell’impervia Val d’Assa, nei sottostanti rifugi delle Cenge e oltre verso la mulattiera sul versante opposto del Dosso, la contrada di “Spiridione”, di Sculazzon e Conca Bassa, dove c’erano i covi partigiani della “Garemi”. Già allora le gambe le si gonfiavano e alla sera, di ritorno dalle missioni, era costretta ad immergere i piedi nella mastella con acqua e sale, la stessa mastella che si vede nella foto delle lavandaie, “pane quotidiano” delle donne di un tempo. Alla sua porta bussavano a tutte le ore “Marte”, “Tempesta”, “Nembo”, “Blasco”, carichi di zaini da portare alle Fratte e giù per la Sengèla di San Pietro, dove c’erano i covi più sicuri. Sempre pronta a partire, per lei i “tusi” erano come fratelli, avrebbe dato tutto alla Resistenza. Donne sole, eroiche, vessate dal fascismo, che le aveva private di tutto svuotando le loro cantine e lasciandole senza mucche e senza la tessera annonaria, costrette ad elemosinare un pentolino di latte dal vicinato. “Anita” in seguito ad una spiata era stata trascinata nelle carceri fasciste di Thiene, dove le sono stati applicati i cavi elettrici su tutto il corpo, anche sui seni. Così si concluse l’intervista: «Dopo la Liberazione non mi sono sentita appagata, i partigiani finirono tutti in Australia, 24 della mia classe. Mi hanno dato qualche riconoscimento, ma vorrei buttare via tutto, disgustata per come si è ridotta l’Italia».
Testo a cura di Giorgio Spiller


Le lavandaie di Albaredo in una foto d’epoca


percorreva il sentiero
che partiva
nei pressi di casa sua
e la conduceva
attraverso
l’impervia Val d’Assa
verso i rifugi
e i covi partigiani
delle cenge
fino al Dosso
di Treschè Conca

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